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Tombe Etrusche a Sesto Fiorentino

La civiltà etrusca è nota e diversa da altre contemporanee per la sontuosità delle sepolture; intorno al settimo secolo a.C. le tombe individuali vengono spesso sostituite da tombe di famiglia che rimangono in uso anche per più generazioni. I sepolcri diventano anche architettonicamente impegnativi, segnando talora il possesso del territorio da parte della “gens” che erige il tumulo.

A Sesto Fiorentino sopravvivono due tombe a tumulo: La Montagnola e La Mula. Un’altra sepoltura importante, anch’essa almeno a camera costruita, sorgeva nella parte nord del parco di Villa Solaria; scoperta verso il 1820-50, fu trasformata, utilizzando i blocchi e la depressione nel terreno, in laghetto, quando una parte del tumulo fu smantellato. Ancora oggi, in quello che fu lo specchio d’acqua, si riconoscono numerosi ortostrati e lastre da copertura, che marginano ancora quella parte residua del tumulo.

Altri tipi di sepolture (a fossa, a “cassone”, a piccolo tumulo con tamburo, a cameretta senza tumulo) sono state scavate presso La Montagnola, o segnalate altrove; più numerosi invece i gruppi di tombe a pozzetto, scavati in parte dal 1966 al 1999, per un totale di almeno una sessantina di deposizioni. Si tratta di seppellimenti individuali o al massimo di coppia, con pochi oggetti di corredo (rasoio e qualche arma nelle tombe maschili; fibule ed oggetti per tessere in tombe femminili).

La Montagnola

Nella camera a Tholos della tomba etrusca gli scavatori entrano il 3 luglio 1959. “La volta senza calcina, con lastroni grandi e grossi che dall’una banda all’altra si accostano al mezzo e quivi congiungano”. Queste parole indicano la costruzione del monumento, che è fatta con grosse pietre in calcare, connesse con argilla, simile al metodo ciclopico di edificare, usato nell’Egeo.

Un dromos scoperto dà accesso ad una porta d’ingresso delimitata da due ante e un architrave, sormontata da quattro lastroni monolitici e un quinto e ultimo in due pezzi; questa successione di lastroni sporge sull’architrave con un senso d’imponenza. Si entra in un dromos coperto a pseudo volta. Nelle pareti del dromos si aprono due camere, a base rettangolare, circoscritte da ante laterali che sono costruite con lastre messe di piatto. Sopra queste lastre sono visibili dei graffiti e alcune tracce d’ocra e d’azzurro scuro.

In fondo al corridoio si apre l’ingresso alla tholos. L’entrata alla camera è ottenuta da lunghi conci di pietra arenaria con sopra un unico lastrone che fa da architrave. Superata la profondità di questa struttura di conci, si nota, incastrato a terra, come un gradino di pietra ai lati due lastroni d’arenaria infilati di piatto, sono resti di una precedente costruzione. Questi lastroni, sono tramezzi in mezzo a due strutture costruite con conci d’arenaria pseudo arcuate a mensola, che servono a governare il passaggio e l’uscita dalla tholos con radicale sutura statica. La facciata interna della tholos è una grande falda trapezoidale.

La tholos è realizzata da un anello curvilineo fatto di piccoli e addensati blocchi che da terra si alzano quasi in verticale, per una certa altezza, per poi iniziare la gradazione di chiusura dello spazio. Al centro di questa camera circolare s’innalza un pilastro, realizzato con blocchi di calcare duri rivestiti di tre centimetri d’intonaco.

Sopra il monumento si alza un tumulo d’argilla e terra, che serviva a proteggere da infiltrazioni d’umidità le spoglie del defunto ed il ricco corredo. (Del corredo si sono ritrovati numerosi frammenti di avorio, oro, argento, ferro e oggetti di bucchero). Il terrapieno alla base è rivestito da lastre di calcare. La tomba a tholos, rientra nel periodo orientalizzante recente (659 – 600 a.C.).

La Mula

La tomba della Mula a Quinto è la più vasta pseudocupola dell’Italia preromana (m. 8,85 di diametro per m. 5,55 di altezza, con un dromos  interno, residuale lungo m. 5,40, largo m.1,60 alto probabilmente m. 2,20) ed è anche il monumento alla “riscoperta dell’antichità” nel medioevo-rinascimento: si tratta dell’unico caso noto di tomba “costruita” entro tumulo, su cui poi è stata edificata una villa rinascimentale. L’edificio e la sottostante tomba etrusca a tholos formano infatti un evidente rilievo, ben isolato e visibile dal complesso collinare retrostante.

Nella tholos ed in parte del corridoio d’accesso sono stati recuperati frustoli del corredo originale, principalmente avori, soprammobili ed altri oggetti preziosi. In questi (come pure nei frammenti di almeno un guscio di uovo di struzzo decorato ad incisione) si riconosce l’opera di un maestro di origine orientale, imitato da allievi locali.

Necropoli di Palastreto

Andrà presumibilmente ascritta al periodo Villanoviano la Grande Necropoli di Palastreto alla Castellina di Quinto fiorentino, una falda montuosa che scende dal versante meridionale di Monte Morello e fiancheggia il primo tratto del torrente Zambra. La segnalazione della scoperta di una tomba paleoetrusca rinvenuta a Palastreto nell’agosto del 1901 si riscontra in una lettera firmata da Pietro Torrigiani e indirizzata al prof, L.A. Milani “… ma non è stato possibile riconoscere la forma e solo fu dato di recuperare alcuni oggetti che ne costituirebbero le suppellettili funebri…”.

Fu solo nel 1965 – in seguito a ripetute segnalazioni di ritrovamenti di materiale archeologico, conseguenti allo sfruttamento di una cava cementizia sul fianco della collina – che la Soprintendenza Archeologica intervenne con una breve campagna di scavo che portò alla luce i resti di una ventina di sculture sepolcrali.

Le campagne di scavo, dirette dalla Soprintendenza Archeologica, si sono succedute negli anni ed hanno documentato che la Necropoli la cui estensione è tuttora in fase d’accertamento. Presumibilmente occupava tutto il fianco nord-occidentale del costone della Castellina.

Il forte pendio, che ora caratterizza la zona, doveva essere parzialmente attenuato grazie ad una serie di opere di terrazzamento che avrebbero permesso una regolare distribuzione delle sepolture.

Le tombe sono tutte della tipologia ‘a pozzetto’, scavate per buona parte nella terra fino a raggiungere il corpo roccioso della collina, che in alcuni casi era scavata per molte decine di centimetri a colpi di scalpello. La parte scavata nella terra era rivestita con una fodera di pietre, connesse in giri sovrapposti a secco; il tutto era inoltre intonacato con argilla la cui applicazione era estesa anche alla parte rocciosa del pozzetto. Sul fondo della struttura era infine praticato un accurato drenaggio, atto a proteggere la deposizione e il relativo corredo dalle infiltrazioni d’acque di falda.

Il lento smottamento verso valle della superficie terrosa della collina (accentuatasi durante il periodo di sfruttamento della cava per le continue esplosioni di mine) non avrebbe consentito di trovare fino ad ora sepolture intatte, ma ora siamo in grado di distinguere due fasi della vita della Necropoli. Nel ‘primo periodo’, presumibilmente tra la fine dell’VIII sec. a.C. e la prima parte del VII sec. a.C., sarebbero da collocarsi le strutture a pozzetto singolo. Si suppone un secondo momento che abbraccerebbe ampiamente il periodo d’uso delle grandi vicine ‘tholoi’ (la Mula e la Montagnola) e che a Palastreto darebbe luogo ad una serie di strutture caratterizzate dalla presenza di coppie di pozzetti realizzati uno a canto all’altro, spesso di profondità diversa, alcuni divisi da lastroni di pietra.

Niente è pervenuto fino ad ora delle originali coperture, in quanto la pietra, da cui esse dovevano essere ricavate (certamente lo stesso alberese che costituisce il nucleo roccioso della collina), è soggetta a rapido degrado se lasciata esposta all’azione degli agenti atmosferici.

La disposizione delle tombe della Necropoli rispecchia criteri d’equidistanza e di rigoroso allineamento lungo file parallele disposte a seguire l’andamento delle curve di livello. Ciò sembrerebbe dimostrare che tale assetto fosse subordinato ad un preciso disegno di pianificazione del sepolcreto, nato per l’esigenza di più centri vicini tra loro e già organizzati secondo criteri protourbani. Queste constatazioni, unite al tipo di struttura delle tombe più recenti apparentemente poco evolute, danno alla Necropoli di Palastreto le connotazioni di un gran cimitero popolare, il primo del genere fino ad ora rinvenuto a testimonianza della presenza Etrusca nella valle dell’Arno.

Villa Romana

Nella piana di Sesto, in Via Petrosa, a poche centinaia di metri in linea d’aria dall’aeroporto Amerigo Vespucci di Peretola, dal 5 novembre 2003 si trova il centro Commerciale Centro*Sesto Coop. Il progetto dell’edificio si deve agli architetti dello studio londinese Chapman Taylor, leaders europei nel campo dell’architettura commerciale. Prima della costruzione dell’edificio sono stati fatti, nell’area interessata al disegno, saggi preliminari da parte della Soprintendenza Archeologica della Toscana. Gli scavi hanno riportato alla luce insediamenti umani dalla preistoria (età del rame) al periodo romano.

Nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale sono visibili una parte dei resti delle strutture romane. Le testimonianze archeologiche evidenziate appartenevano ad un’azienda agricola, in uso per un lungo periodo compreso fra la fine del I sec. a.C. e la fine del III sec. d.C. Questo edificio, del periodo romano, comprendeva due impianti funzionali: la parte residenziale, o pars urbana dove risiedeva il proprietario, la parte urbana, o pars rustica dove si svolgevano le attività dell’azienda.

Acquedotto Romano

I resti dell’acquedotto romano, in pietrame misto a calcestruzzo, risalgono al II secolo e sono situati sulla riva destra dello Zambra, all’interno dell’area denominata “Parco degli Etruschi”. L’acquedotto era posto a servizio della città di Florentia, verso la quale convogliava le acque provenienti dalla località La Chiusa in Val Marina.

Ponte alle Volpi

L’antico ponte alle Volpi, documentato nella carta dei Capitani di Parte Guelfa del secolo XVI, ancora oggi è visibile lungo il torrente Zambra in località Palastreto. Questo ponte, più volte manomesso nei secoli, è testimone di un’antica viabilità. In linea generale, la viabilità è la prima a costituirsi storicamente, serve per unire un insieme di strutture di percorrenza che collegano vari punti fra loro. Essa descrive lo spazio territorio tempo in cui l’uomo agisce.

L’uomo è un essere mobile, ed i segni della mobilità sono la prima forma fondamentale di vita di un territorio. I percorsi viari sono quindi il segno più evidente di un’attività operativa attiva sull’ambiente. Tale funzionalità induce l’uomo, nel tempo, a percorrere sempre le stesse strade che collegano fra loro i vari insediamenti in cui gli abitanti hanno dei fondamentali punti di riferimento, legati sia ad attività proprie di un determinato periodo, sia a pratiche economiche, politiche e commerciale, che magico religioso.

L’individuazione tipologica della viabilità, dapprima considerata in rapporto alle condizioni morfologiche e climatiche ed inseguito in rapporto all’ubicazione dei vari organismi insediativi, era tracciata seguendo i percorsi naturali dei crinali e dei corsi d’acqua.

Possiamo perciò distinguere, nella nostra zona, un impianto viario d’acqua più naturale e uno di terra che si estende in una rete sempre più complessa in conseguenza all’intensificarsi dei rapporti economico – commerciali. L’impianto viario in epoche antiche, doveva avere in pianura percorsi di collegamento che erano utilizzati soprattutto da pescatori, commercianti fluviali e pastori. A quota superiore erano tracciati percorsi di crinale secondario o di mezza costa: oltre ai percorsi di collegamento tra gli insediamenti.

Probabile che uno dei tracciati più importanti collegava, da una parte, Poggio del Giro con le tombe monumentali della Mula e della Montagnola e dall’altra parte con le tombe comuni di Castellina – Palastreto, mantenendosi sempre in quota secondo un percorso di mezza costa il più agevole e rapido. Su alcuni documenti dei primi del 1900 è segnata una strada poderale nella proprietà Tognozzi – Moreni denominata “via dei morti” o “via del poggio” toponimi identificati con Poggio del Giro e Palastreto, come fulcro di zone sacre e cimiteriali.

Il tracciato locale si allacciava, presumibilmente, ad un tracciato principale che attraversava il Ponte alle Volpi e proseguiva oltre, in due direzioni opposte: in un senso verso Fiesole e nell’altro verso l’abitato all’incrocio dei due fiumi il Marina ed il Bisenzio, per poi dividersi in due rami uno che andava verso Artimino e uno verso il Mugello per proseguire verso Marzabotto e Felsina.

Possiamo pensare che le strade, che collegavano Sesto, Quinto, Quarto, Terzolle e Fiesole, passavano là, dove ancora si trova il ponte alle Volpi che univa altri antichi sentieri con altrettanti nodi viari, Questi antichi percorsi oggi quasi dimenticati, ma mai saranno cancellati perché “…l’impianto viario rimarrà sempre un organismo-base e sempre in qualche misura condizionante, cioè permarrà nel corso della storia come matrice operante, continuo artefice dell’individualità del territorio…”.

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